Gran parte della vita di Guglielmo Vercelli si svolse viaggiando ed il suo cammino ripercorre la grande tradizione dei pellegrini che numerosi, dal IV al XIII secolo, seguirono l’esempio dei primi eremiti: dai “padri del deserto” come S. Antonio Abbate, ai santi – asceti della fede. “Nelle sue comunità viene ben presto venerato come santo e il culto pubblico viene autorizzato da alcuni vescovi e nel 1785 esteso a tutta la Chiesa. Nel 1942 papa Pio XII ha proclamato Guglielmo di Montevergine patrono primario dell’Irpinia. In San Pietro a Roma è raffigurato con una statua che ha un lupo accovacciato ai piedi, in ricordo di un prodigio che attribuitoli dalla tradizione”
***
1085: Guglielmo nacque in una famiglia benestante a Vercelli.
1099: Inizia il pellegrinaggio Santiago di Compostela (in spagnolo e in galiziano Santiago de Compostela; in italiano San Giacomo di Compostela) è una città spagnola capoluogo della comunità autonoma della Galizia. La sua notorietà è dovuta al fatto che da oltre un millennio è, secondo la tradizione cristiana, sede delle spoglie mortali di Giacomo il Maggiore, apostolo di Gesù. Durante il Cammino si fece fabbricare da un fabbro che gli diede ospitalità, due cerchi in ferro con i quali si cinse il petto e la testa. Il viaggio di andata e di ritorno durò 5 anni. Anche la più antica iconografia del santo, inserita nel predetto codice della Legenda, raffigura G. con in mano il bastone ricurvo dei pellegrini e con la veste nera segnata da croci rosse, distintivo peculiare di coloro che appartenevano all’ordo poenitentium, la cui religio si esprimeva con una perfetta humilitas.
1105: Ritornato in Italia, decise di proseguire il Cammino in Terra Santa.
1106: Guglielmo giunse a Roma, per restarvi un anno, ove visitò reliquie di santi, sante e chiese. Poi si recò in Abruzzo e in Puglia, presso la grotta di S. Michele Arcangelo del Gargano ed a Bari, presso le reliquie di S. Nicolò Vescovo.
1107: Giunse a Melfi. La leggenda narra che il signore di Melfi (forse si tratta del signore di Melfi, Ruggero Borsa, figlio di secondo letto di Roberto il Guiscardo – 1060 – 1111), saputo che era giunto nella capitale normanna un uomo scalzo e preceduto dalla sua fama di santità, lo fece condurre a corte facendogli dono di un manoscritto delle Sacre Scritture che Guglielmo mostrò già di conoscere, recitando a memoria il salmo 109.
1108: Non accettando l’invito di restare a corte, decise di muoversi in prossimità di un monte chiamato Solicolo (Monte Sirico, nei pressi di Atella e di un castello, forse Lagopesole). Fu ospite del milite Pietro, persona “timorosa di Dio” che lo accolse per due anni come un fratello nella sua dimora. Guglielmo era solito ritirarsi in meditazione su una rupe. Qui compì il miracolo di ridare la vista ad un cieco. La leggenda narra che Guglielmo continuasse a camminare scalzo, mangiando legumi macerati in aceto e meditando sulle sacre scritture, che portava sempre con sé.
1111 – 1112: Arrivato a Ginosa, proseguendo il viaggio per imbarcarsi per la Terra Santa, conobbe San Giovanni da Matera “Non solo si abbracciarono – scrisse Gian Giacomo Giordano, Abbate di Montevergine nel 1624, autore di una sua biografia – ma si chiamarono per loro nome come si fossero da sempre conosciuti”. Dopo aver parlato con Fratello Giovanni per tutta la notte, il mattino seguente Guglielmo ripartì, nonostante Giovanni lo avesse esortato a restare, predicendogli quello che gli sarebbe accaduto. Ad Oria venne assalito e tramortito da ladri. Rientrato da San Giovanni, che si prese cura di lui, i due sentirono la voce di Dio (secondo Padre Nusco invece Dio gli apparve) rivelando loro la fondazione di una nuova Religione (ndr: nuovo ordine monastico che poi S. Guglielmo fondò con il nome di ordine Verginiano). Dopo alcune settimane Guglielmo decise di partire da Ginosa alla ricerca del luogo ove fondare la nuova Religione voluta da Dio. Consumò un anno di cammino giungendo “…ad Atripalda, non molto distante da Montevergine, dal monte Virgiliano ove Virgilio vi pose un orto, sul luogo ove un tempo fu di Cibele”. In questi luoghi il Santo, calpestando il Sacro Specus Martyrum [1] – custode delle ossa dei martiri che per primi resero cristiana e gloriosa Abellinun (Avellino) – si disseta all’originaria sorgente di fede che ancora nutre di frescura fideistica l’animo di chiunque vi si avvicina. Fu Sabino, un tempo, custode di questo antico sacello e la traccia del suo sostare è impressa a fuoco in quel locus sì venerato. Tanti furono i pellegrini che presero Sant’Ippolisto [2] come esempio di ardimentose ascese che trovarono asilo anche nelle membra e nel cuore di Guglielmo.
1113: Recatosi a Salerno, ricevette in dono da un soldato una delle sue numerose armature atteso che i ferri che portava erano “logori e rotti”. Quindi insieme alla celata sulla testa, indossò sul corpo una maglia intrecciata di ferro, secondo l’uso dei guerrieri normanni.
1114 – 1119: Giunse a Montevergine, ove abitò solitario presso un eremo poco distante, cibandosi di pane d’orzo cotto in acqua, fave e castagne. “A Guglielmo s’accompagnò Alberto monaco…gli apparve nuovamente Iddio rilevandogli che in luogo egli avrebbe fondato la nuova Religione…ricordandosi dell’apparizione di qualche tempo prima …alcune colombe bianche che gli mostravano l’acqua. All’eremo accorsero numerosi preti e sacerdoti”.
1124 – 1126: Venne innalzata la chiesa a Montevergine consacrata dal vescovo Giovanni di Avellino con alcune celle per i monaci. Miracoli avvennero in questo periodo: – la guarigione di uomo dal “braccio secco”; – l’addomesticamento di un lupo che aveva sbranato l’asinello. La nascita della congregazione Verginiana si fa risalire al 1126 (secondo Gian Giacomo Giordano, nel 1124), ma solo più tardi, nel 1157, si ha notizia della presenza dell’ordine di San Guglielmo da Vercelli che venne beatificato da Papa Alessandro III nel 1181, fatto Santo nel 1786 da Pio VI e dichiarato da Pio XII patrono dell’Irpinia nel 1942. L’emblema dell’Ordine Verginiano è rappresentato da una croce piantata sul monte più altro di tre, con le iniziali M e V ai suoi lati. L’abito monacale era di colore rosso con lo scapolare verde ed è rappresentato in un manoscritto latino del XIII sec. presso l’archivio dell’Abbazia di Montevergine. In Lucania appartennero all’Ordine monastico S. Maria De Olivis e Santa Margherita di Tolve.
1127: Secondo quanto scrive l’Abate Giordano “San Guglielmo parti da Montevergine per l’ostinata marmorizzazione ed interesse di alcuni monaci e perché lo tacciavano fosse troppo liberale verso i poveri e vi lasciò il suo sostituto Alberto e molti buoni ricordi… e va a Monte Laceno (Bagnoli Irpino) assieme ad altri monaci che poi lo lasciarono solo”.
1128: La notizia dei miracoli compiuti da San Guglielmo giunse a San Giovanni, divenuto Abate di Pulsano che decise di partire per Montevergine per andare a far visita all’amico fraterno. Non trovandolo, andò all’eremo di Monte Laceno. Ancora una volta i due s’incontrarono per volontà di Dio ed ebbero la grazia dell’apparizione di Cristo in vesti candide che esortò i due a lasciare il Monte Laceno, a mettersi in cammino. Passando per Tricarico i due giunsero a Cognato, nei pressi di Calciano sul fiume Basento, ove venne realizzato di seguito un eremo ancora oggi esistente a poca distanza dal fiume Basento. Dopo un breve periodo decisero di dividersi scambiando i propri abiti: San Giovanni andò a Monte S. Angelo sul Gargano mentre Guglielmo rimase ancora una volta solo, conducendo vita eremitica. Qui compì il miracolo di esorcizzare un indemoniato, un cacciatore che dopo aver colpito l’elmo in ferro indossato dal santo ne sfigurò il volto, prima di essere posseduto dal demonio.
1129: A Cognato fondò una Chiesa ed un Monastero – per intercessione del conte Roberto di Montescaglioso. Altri miracoli: in Terra di Albano di Lucania un Grammatico cercò di confondere la parola di Guglielmo ed a sua volta ne restò confuso e fu visto più volte parlare ad un lupo che fece da guardia all’orto dei monaci nel bosco di Cognato, evitando così che i cinghiali lo devastassero privandoli del cibo.
1130: Giunse ad una valle molto boscosa ed in parte senz’alberi, chiamata Valle Cofana dalla quale trae origine l’Aufido (fiume Ofanto), scegliendo un grande albero come sua cella e luogo di preghiera (secondo Panarelli in località Gullitu nel territorio di Monticchio. In M.F.Manchia, cit.). Ricevette la visita di Ruggero Sanseverino che ordinò a Gualtiero Architetto di progettare il Monastero femminile del Goleto. Alle monache del Goleto, così come avvenne a Montevergine (dove anche i pellegrini dovevano astenersi dal mangiare carne e latticini secondo la regola impartita da San Guglielmo), era fatto divieto di mangiare carne, uova e formaggio mentre le consorelle dovevano cibarsi solo di pane, frutta e ortaggi crudi, conditi con olio solo tre giorni a settimana. A Pentecoste e durante la Quaresima le monache dovevano cibarsi solo di pane e acqua ed al posto del pane, di legumi e ortaggi.
1132: A Benevento sanò “miracolosamente una figliola nata cieca”. A Bari venne inutilmente tentato da una donna impudica che “lo provocò alla disonesta”. Guglielmo superò la prova architettata contro di lui camminando sulle braci ardenti. La donna colpita dalla sua santità volle farsi monaca.
1133: A Salpi sanò miracolosamente una “donna lunatica” che aveva bevuto l’acqua con la quale San Guglielmo s’era lavato le mani e, di ritorno, passando da Melfi, fondò il monastero femminile delle monache Verginiane (poi occupato dalle clarisse, divenuto in seguito l’ex carcere di Melfi). Re Ruggero II donò al “Padre Romito” una chiesa a Salerno chiamata di San Lorenzo mentre a Palermo fondò San Giovanni del Casale o Acquara, con un convento maschile e femminile. La cittadella monastica del Santissimo Salvatore al Goleto sorse in questo periodo per volere di Guglielmo che aveva ricevuto il suolo per la nuova badia da Ruggero, signore normanno della vicina Monticchio, località oggi disabitata, situata tra Sant’Angelo dei Lombardi e Rocca San Felice. Per volontà del fondatore, il vasto fabbricato primitivo era destinato ad ospitare una comunità mista di monache e monaci, dove l’autorità suprema era rappresentata dalla Badessa, mentre ai monaci era affidato il servizio liturgico e la cura della parte amministrativa.
1137: Riuscì a scagionare, davanti ad un giudice ad Altamura, alcuni poveri accusati ingiustamente di aver saccheggiato un campo, miracolosamente conducendo innanzi al giudice gli animali selvatici che ne erano stati i responsabili. Nello stesso anno si fa risalire la fondazione del monastero di Santa Maria della Mena, in prossimità del Pulo di Altamura.
1141-1142: Predisse a re Ruggero II la sua prossima morte a Salerno. Ricevette con bolla del Vescovo di Rapolla, Ruggero I, la chiesa di S. Maria di Pierno e si ritirò malato presso il monastero del Goleto. Dopo essere rimasto qui per otto anni, ammalatosi, volle essere deposto davanti alla croce, prima di spirare.
Nella notte tra il 24 e 25 Giugno 1142: San Guglielmo morì all’età di 57 anni. Il suo corpo rimase in quel monastero sino al 1807, quando fu trasferito nell’abbazia di Montevergine.
[1] *Luogo di antichissima devozione in Irpinia, cimitero paleocristiano della collegiata di Sant’Ippolisto ad Atripalda, in cui furono sepolti i Santi Sabino e Romolo ed anche diversi martiri. Considerato uno dei maggiori monumenti dell’archeologia cristiana del Meridione, è ancora oggi meta di numerosi pellegrinaggi. Scavi recenti hanno portato alla luce anche una basilica del IV secolo d.C. Il 2 novembre, giorno dei morti, le catacombe di ogni confraternita sono aperte al pubblico, il pronao è addobbato con velluti neri; fiori e profumi imbalsamano l’atmosfera, e le nicchie mortuarie risultano ampiamente illuminate. Il giorno in cui si celebra Sant’Ippolisto ed i compagni Martiri è il 1° maggio. Per l’occasione, fino al 2 maggio, tutti i fedeli sono soliti raccogliersi in preghiera nello Specus Martyrum ove furono sepolti: Quinziano, Crescenzo, Ireneo, Massimilla, Lucrezia, Anastasio, Firmio, Fabio Senior, Eustachio, Giustino, Proculo, Firmiano, Ignazio, Secondino, Eusebio, Querulo, Fabio Junior, Proculo, Eulogio, oltre ovviamente ad Ippolisto, sacerdote.
[2] Nato verso la metà del secolo terzo in Antiochia (secondo altri nato ad Avellino da genitori antiochieni) Ippolisto, discendente da famiglia nobile, sin dalla più tenera età, fu affidato ad un sacerdote cristiano, il celebre grammatico Babila. Il suo ardente desiderio di propagare la fede di Cristo aumentò ancor più, quando il proprio maestro fu martirizzato sotto i suoi occhi. Educato alla cultura classica ed alla fede dopo anni di vita, preghiere e mortificazioni del suo corpo divenne sacerdote. La sua passione per l’apostolato lo portò a girovagare per il mondo finché non approdò nella città di Abellinum (l’attuale Atripalda) dove già si era costituita una colonia di orientali trasferiti dall’imperatore Alessandro Severo. Aprire alla luce gli occhi ciechi degli idolatri divenne lo scopo della sua vita e teatro del suo martirio con l’epilogo della somma santità. Nel predicare la fede in Cristo guariva infermi, ridava la vista ai ciechi, raddrizzava gli storpi, cacciava i demoni dal corpo degli ossessi, ottenendo una fama straordinaria e di conseguenza una falange di seguaci che generarono negli animi tenebrosi dei senatori, governanti la città di Abellinum, la decisione di arrestarlo. Correva in quei giorni, secondo la tradizione pagana, l’annuale festa dedicata a Giove Capitolino, al quale era stato costruito un tempio sul monte Toppolo (adesso pertinenza di Manocalzati). Vi si era radunata una grande moltitudine di persone per offrire sacrifici intorno all’ara sacrificale ma Ippolisto riuscì a convincere molti di loro a seguire il vero Dio. Alcuni senatori, Quintiano, Anselmo e Piereo, si scagliarono contro di lui percuotendolo. Il flagello (strumento terribile) che fu usato in quella circostanza per martoriare il corpo, non sfiorò minimamente lo spirito del martire. Alla festa di Giove sopraggiunse quella di Diana, il cui tempio si ergeva sul vertice del monte Tripaldo (castiello) e Ippolisto non mancò di intervenire per rimproverare quella moltitudine della loro cecità. Moltissimi lo seguirono fuori dal tempio il quale di lì a poco crollò uccidendo diversi pagani. Questo evento diede luogo alla conversione di moltissime persone, inasprendo ancor di più l’odio dei senatori pagani. Per un po’ di tempo Ippolisto, esortato dai fedeli, si rifugiò nel Sannio Irpino e precisamente a Dentecane e Benevento, dove probabilmente conobbe anche S. Gennaro ed il suo compatriota S. Modestino. Nel 303 torna ad Abellinum, proprio in occasione della grande festa di Giove che si svolgeva il primo di maggio. L’ardente apostolo non riuscì a trattenere la sua ira e con parole infuocate, nonostante il grave pericolo incombente, predicò il suo Dio morto crocifisso. L’inaspettato tuonare del nostro glorioso martire ferì altamente i sacerdoti e i senatori i quali ordinarono di trascinarlo ai piedi di Giove per costringerlo ad adorarlo. Il pontefice Beatillo gli porse l’incensiere per onorare Giove, ma il martire in segno di spregio lo scaraventò sull’idolo frantumandolo. Per questo gesto fu coperto di sputi e condannato a morte. Prima di dare atto alla sentenza fu tentata l’ultima risorsa (comune nei processi contro i cristiani), cioè la tortura col famoso “Flagellum” per spingere il nostro eroe all’apostasia; ma il Santo non vacillò un istante sotto la crudele flagellazione, per cui i senatori, dirati, per far scempio più feroce, ordinarono che fosse legato alla coda del toro che doveva essere sacrificato e che il suo corpo restasse preda degli avvoltoi e dei cani. Il toro aizzato con torce infiammate, corse imbizzarrito, giù per il crinale del colle, trascinando e dilaniando lungo il pendio sassoso e cosparso di rovi spinosi, quel povero corpo disarticolato e sanguinolento, ormai privo di vita, ed infine sulle rive del fiume Sabato i carnefici gli mozzarono la testa, lasciandone il martoriato corpo insepolto. Dopo due giorni, due nobili donne convertite, Massimilla e Lucrezia, poi martirizzate, notte tempo raccolsero in candidi lini i resti delle sue carni e le zolle bagnate del suo sangue e lo riposero in una grotta, ora chiamata Specus dei Martiri. Al suddetto martirio seguì quello non meno toccante del senatore Quinziano da tempo convertito da S. Ippolisto. Per il rifiuto posto alla condanna del martire fu condannato ad essere decapitato; i suoi figli Ireneo e Crescenzo di dieci e sette anni si aggrapparono al padre nella speranza di impietosire i carnefici, ma anche loro furono trafitti a colpi di lancia. Il corpo di S. Ippolisto a conferma del suo martirio, venne scoperto nel 1629 al di sotto del famoso mosaico (perduto per tale ricerca) tra i sepolcri di S. Sabino e di S. Romolo. Sotto si ritrovò finalmente il corpo del martire con il busto separato dalla testa a cui era legato ancora un mozzicone della fune intrisa di sangue, con la quale era stato legato al toro.
Cripta Chiesa S.S. Trinità di Venosa: S. Antonio Abate (IX-X sec)
Cartografia del Tratturo (da quadro di unione catastali)
Lastra tombale di San Guglielmo un tempo presso il monastero del Goleto e successivamente trafugata o dispersa (immagine tratta da V. De Duonni. Tra le immagini e il testo del “De vita et obitu sancti Guglielmi: raffigurazione del santo vercellese fondatore di Montevergine”. Unisa, 2017)
Schizzo di San Guglielmo fatto da G.B.Guarini presso la cappella rupestre di S.Margherita. Tatto dal testo “Curiosità d’arte medievale nel melfese” – anno 1900
Gran parte della vita di Guglielmo Vercelli si svolse viaggiando ed il suo cammino ripercorre la grande tradizione dei pellegrini che numerosi, dal IV al XIII secolo, seguirono l’esempio dei primi eremiti: dai “padri del deserto” come S. Antonio Abbate, ai santi – asceti della fede. “Nelle sue comunità viene ben presto venerato come santo e il culto pubblico viene autorizzato da alcuni vescovi e nel 1785 esteso a tutta la Chiesa. Nel 1942 papa Pio XII ha proclamato Guglielmo di Montevergine patrono primario dell’Irpinia. In San Pietro a Roma è raffigurato con una statua che ha un lupo accovacciato ai piedi, in ricordo di un prodigio che attribuitoli dalla tradizione”
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1085: Guglielmo nacque in una famiglia benestante a Vercelli.
1099: Inizia il pellegrinaggio Santiago di Compostela (in spagnolo e in galiziano Santiago de Compostela; in italiano San Giacomo di Compostela) è una città spagnola capoluogo della comunità autonoma della Galizia. La sua notorietà è dovuta al fatto che da oltre un millennio è, secondo la tradizione cristiana, sede delle spoglie mortali di Giacomo il Maggiore, apostolo di Gesù. Durante il Cammino si fece fabbricare da un fabbro che gli diede ospitalità, due cerchi in ferro con i quali si cinse il petto e la testa. Il viaggio di andata e di ritorno durò 5 anni. Anche la più antica iconografia del santo, inserita nel predetto codice della Legenda, raffigura G. con in mano il bastone ricurvo dei pellegrini e con la veste nera segnata da croci rosse, distintivo peculiare di coloro che appartenevano all’ordo poenitentium, la cui religio si esprimeva con una perfetta humilitas.
1105: Ritornato in Italia, decise di proseguire il Cammino in Terra Santa.
1106: Guglielmo giunse a Roma, per restarvi un anno, ove visitò reliquie di santi, sante e chiese. Poi si recò in Abruzzo e in Puglia, presso la grotta di S. Michele Arcangelo del Gargano ed a Bari, presso le reliquie di S. Nicolò Vescovo.
1107: Giunse a Melfi. La leggenda narra che il signore di Melfi (forse si tratta del signore di Melfi, Ruggero Borsa, figlio di secondo letto di Roberto il Guiscardo – 1060 – 1111), saputo che era giunto nella capitale normanna un uomo scalzo e preceduto dalla sua fama di santità, lo fece condurre a corte facendogli dono di un manoscritto delle Sacre Scritture che Guglielmo mostrò già di conoscere, recitando a memoria il salmo 109.
1108: Non accettando l’invito di restare a corte, decise di muoversi in prossimità di un monte chiamato Solicolo (Monte Sirico, nei pressi di Atella e di un castello, forse Lagopesole). Fu ospite del milite Pietro, persona “timorosa di Dio” che lo accolse per due anni come un fratello nella sua dimora. Guglielmo era solito ritirarsi in meditazione su una rupe. Qui compì il miracolo di ridare la vista ad un cieco. La leggenda narra che Guglielmo continuasse a camminare scalzo, mangiando legumi macerati in aceto e meditando sulle sacre scritture, che portava sempre con sé.
1111 – 1112: Arrivato a Ginosa, proseguendo il viaggio per imbarcarsi per la Terra Santa, conobbe San Giovanni da Matera “Non solo si abbracciarono – scrisse Gian Giacomo Giordano, Abbate di Montevergine nel 1624, autore di una sua biografia – ma si chiamarono per loro nome come si fossero da sempre conosciuti”. Dopo aver parlato con Fratello Giovanni per tutta la notte, il mattino seguente Guglielmo ripartì, nonostante Giovanni lo avesse esortato a restare, predicendogli quello che gli sarebbe accaduto. Ad Oria venne assalito e tramortito da ladri. Rientrato da San Giovanni, che si prese cura di lui, i due sentirono la voce di Dio (secondo Padre Nusco invece Dio gli apparve) rivelando loro la fondazione di una nuova Religione (ndr: nuovo ordine monastico che poi S. Guglielmo fondò con il nome di ordine Verginiano). Dopo alcune settimane Guglielmo decise di partire da Ginosa alla ricerca del luogo ove fondare la nuova Religione voluta da Dio. Consumò un anno di cammino giungendo “…ad Atripalda, non molto distante da Montevergine, dal monte Virgiliano ove Virgilio vi pose un orto, sul luogo ove un tempo fu di Cibele”. In questi luoghi il Santo, calpestando il Sacro Specus Martyrum [1] – custode delle ossa dei martiri che per primi resero cristiana e gloriosa Abellinun (Avellino) – si disseta all’originaria sorgente di fede che ancora nutre di frescura fideistica l’animo di chiunque vi si avvicina. Fu Sabino, un tempo, custode di questo antico sacello e la traccia del suo sostare è impressa a fuoco in quel locus sì venerato. Tanti furono i pellegrini che presero Sant’Ippolisto [2] come esempio di ardimentose ascese che trovarono asilo anche nelle membra e nel cuore di Guglielmo.
1113: Recatosi a Salerno, ricevette in dono da un soldato una delle sue numerose armature atteso che i ferri che portava erano “logori e rotti”. Quindi insieme alla celata sulla testa, indossò sul corpo una maglia intrecciata di ferro, secondo l’uso dei guerrieri normanni.
1114 – 1119: Giunse a Montevergine, ove abitò solitario presso un eremo poco distante, cibandosi di pane d’orzo cotto in acqua, fave e castagne. “A Guglielmo s’accompagnò Alberto monaco…gli apparve nuovamente Iddio rilevandogli che in luogo egli avrebbe fondato la nuova Religione…ricordandosi dell’apparizione di qualche tempo prima …alcune colombe bianche che gli mostravano l’acqua. All’eremo accorsero numerosi preti e sacerdoti”.
1124 – 1126: Venne innalzata la chiesa a Montevergine consacrata dal vescovo Giovanni di Avellino con alcune celle per i monaci. Miracoli avvennero in questo periodo: – la guarigione di uomo dal “braccio secco”; – l’addomesticamento di un lupo che aveva sbranato l’asinello. La nascita della congregazione Verginiana si fa risalire al 1126 (secondo Gian Giacomo Giordano, nel 1124), ma solo più tardi, nel 1157, si ha notizia della presenza dell’ordine di San Guglielmo da Vercelli che venne beatificato da Papa Alessandro III nel 1181, fatto Santo nel 1786 da Pio VI e dichiarato da Pio XII patrono dell’Irpinia nel 1942. L’emblema dell’Ordine Verginiano è rappresentato da una croce piantata sul monte più altro di tre, con le iniziali M e V ai suoi lati. L’abito monacale era di colore rosso con lo scapolare verde ed è rappresentato in un manoscritto latino del XIII sec. presso l’archivio dell’Abbazia di Montevergine. In Lucania appartennero all’Ordine monastico S. Maria De Olivis e Santa Margherita di Tolve.
1127: Secondo quanto scrive l’Abate Giordano “San Guglielmo parti da Montevergine per l’ostinata marmorizzazione ed interesse di alcuni monaci e perché lo tacciavano fosse troppo liberale verso i poveri e vi lasciò il suo sostituto Alberto e molti buoni ricordi… e va a Monte Laceno (Bagnoli Irpino) assieme ad altri monaci che poi lo lasciarono solo”.
1128: La notizia dei miracoli compiuti da San Guglielmo giunse a San Giovanni, divenuto Abate di Pulsano che decise di partire per Montevergine per andare a far visita all’amico fraterno. Non trovandolo, andò all’eremo di Monte Laceno. Ancora una volta i due s’incontrarono per volontà di Dio ed ebbero la grazia dell’apparizione di Cristo in vesti candide che esortò i due a lasciare il Monte Laceno, a mettersi in cammino. Passando per Tricarico i due giunsero a Cognato, nei pressi di Calciano sul fiume Basento, ove venne realizzato di seguito un eremo ancora oggi esistente a poca distanza dal fiume Basento. Dopo un breve periodo decisero di dividersi scambiando i propri abiti: San Giovanni andò a Monte S. Angelo sul Gargano mentre Guglielmo rimase ancora una volta solo, conducendo vita eremitica. Qui compì il miracolo di esorcizzare un indemoniato, un cacciatore che dopo aver colpito l’elmo in ferro indossato dal santo ne sfigurò il volto, prima di essere posseduto dal demonio.
1129: A Cognato fondò una Chiesa ed un Monastero – per intercessione del conte Roberto di Montescaglioso. Altri miracoli: in Terra di Albano di Lucania un Grammatico cercò di confondere la parola di Guglielmo ed a sua volta ne restò confuso e fu visto più volte parlare ad un lupo che fece da guardia all’orto dei monaci nel bosco di Cognato, evitando così che i cinghiali lo devastassero privandoli del cibo.
1130: Giunse ad una valle molto boscosa ed in parte senz’alberi, chiamata Valle Cofana dalla quale trae origine l’Aufido (fiume Ofanto), scegliendo un grande albero come sua cella e luogo di preghiera (secondo Panarelli in località Gullitu nel territorio di Monticchio. In M.F.Manchia, cit.). Ricevette la visita di Ruggero Sanseverino che ordinò a Gualtiero Architetto di progettare il Monastero femminile del Goleto. Alle monache del Goleto, così come avvenne a Montevergine (dove anche i pellegrini dovevano astenersi dal mangiare carne e latticini secondo la regola impartita da San Guglielmo), era fatto divieto di mangiare carne, uova e formaggio mentre le consorelle dovevano cibarsi solo di pane, frutta e ortaggi crudi, conditi con olio solo tre giorni a settimana. A Pentecoste e durante la Quaresima le monache dovevano cibarsi solo di pane e acqua ed al posto del pane, di legumi e ortaggi.
1132: A Benevento sanò “miracolosamente una figliola nata cieca”. A Bari venne inutilmente tentato da una donna impudica che “lo provocò alla disonesta”. Guglielmo superò la prova architettata contro di lui camminando sulle braci ardenti. La donna colpita dalla sua santità volle farsi monaca.
1133: A Salpi sanò miracolosamente una “donna lunatica” che aveva bevuto l’acqua con la quale San Guglielmo s’era lavato le mani e, di ritorno, passando da Melfi, fondò il monastero femminile delle monache Verginiane (poi occupato dalle clarisse, divenuto in seguito l’ex carcere di Melfi). Re Ruggero II donò al “Padre Romito” una chiesa a Salerno chiamata di San Lorenzo mentre a Palermo fondò San Giovanni del Casale o Acquara, con un convento maschile e femminile. La cittadella monastica del Santissimo Salvatore al Goleto sorse in questo periodo per volere di Guglielmo che aveva ricevuto il suolo per la nuova badia da Ruggero, signore normanno della vicina Monticchio, località oggi disabitata, situata tra Sant’Angelo dei Lombardi e Rocca San Felice. Per volontà del fondatore, il vasto fabbricato primitivo era destinato ad ospitare una comunità mista di monache e monaci, dove l’autorità suprema era rappresentata dalla Badessa, mentre ai monaci era affidato il servizio liturgico e la cura della parte amministrativa.
1137: Riuscì a scagionare, davanti ad un giudice ad Altamura, alcuni poveri accusati ingiustamente di aver saccheggiato un campo, miracolosamente conducendo innanzi al giudice gli animali selvatici che ne erano stati i responsabili. Nello stesso anno si fa risalire la fondazione del monastero di Santa Maria della Mena, in prossimità del Pulo di Altamura.
1141-1142: Predisse a re Ruggero II la sua prossima morte a Salerno. Ricevette con bolla del Vescovo di Rapolla, Ruggero I, la chiesa di S. Maria di Pierno e si ritirò malato presso il monastero del Goleto. Dopo essere rimasto qui per otto anni, ammalatosi, volle essere deposto davanti alla croce, prima di spirare.
Nella notte tra il 24 e 25 Giugno 1142: San Guglielmo morì all’età di 57 anni. Il suo corpo rimase in quel monastero sino al 1807, quando fu trasferito nell’abbazia di Montevergine.
[1] *Luogo di antichissima devozione in Irpinia, cimitero paleocristiano della collegiata di Sant’Ippolisto ad Atripalda, in cui furono sepolti i Santi Sabino e Romolo ed anche diversi martiri. Considerato uno dei maggiori monumenti dell’archeologia cristiana del Meridione, è ancora oggi meta di numerosi pellegrinaggi. Scavi recenti hanno portato alla luce anche una basilica del IV secolo d.C. Il 2 novembre, giorno dei morti, le catacombe di ogni confraternita sono aperte al pubblico, il pronao è addobbato con velluti neri; fiori e profumi imbalsamano l’atmosfera, e le nicchie mortuarie risultano ampiamente illuminate. Il giorno in cui si celebra Sant’Ippolisto ed i compagni Martiri è il 1° maggio. Per l’occasione, fino al 2 maggio, tutti i fedeli sono soliti raccogliersi in preghiera nello Specus Martyrum ove furono sepolti: Quinziano, Crescenzo, Ireneo, Massimilla, Lucrezia, Anastasio, Firmio, Fabio Senior, Eustachio, Giustino, Proculo, Firmiano, Ignazio, Secondino, Eusebio, Querulo, Fabio Junior, Proculo, Eulogio, oltre ovviamente ad Ippolisto, sacerdote.
[2] Nato verso la metà del secolo terzo in Antiochia (secondo altri nato ad Avellino da genitori antiochieni) Ippolisto, discendente da famiglia nobile, sin dalla più tenera età, fu affidato ad un sacerdote cristiano, il celebre grammatico Babila. Il suo ardente desiderio di propagare la fede di Cristo aumentò ancor più, quando il proprio maestro fu martirizzato sotto i suoi occhi. Educato alla cultura classica ed alla fede dopo anni di vita, preghiere e mortificazioni del suo corpo divenne sacerdote. La sua passione per l’apostolato lo portò a girovagare per il mondo finché non approdò nella città di Abellinum (l’attuale Atripalda) dove già si era costituita una colonia di orientali trasferiti dall’imperatore Alessandro Severo. Aprire alla luce gli occhi ciechi degli idolatri divenne lo scopo della sua vita e teatro del suo martirio con l’epilogo della somma santità. Nel predicare la fede in Cristo guariva infermi, ridava la vista ai ciechi, raddrizzava gli storpi, cacciava i demoni dal corpo degli ossessi, ottenendo una fama straordinaria e di conseguenza una falange di seguaci che generarono negli animi tenebrosi dei senatori, governanti la città di Abellinum, la decisione di arrestarlo. Correva in quei giorni, secondo la tradizione pagana, l’annuale festa dedicata a Giove Capitolino, al quale era stato costruito un tempio sul monte Toppolo (adesso pertinenza di Manocalzati). Vi si era radunata una grande moltitudine di persone per offrire sacrifici intorno all’ara sacrificale ma Ippolisto riuscì a convincere molti di loro a seguire il vero Dio. Alcuni senatori, Quintiano, Anselmo e Piereo, si scagliarono contro di lui percuotendolo. Il flagello (strumento terribile) che fu usato in quella circostanza per martoriare il corpo, non sfiorò minimamente lo spirito del martire. Alla festa di Giove sopraggiunse quella di Diana, il cui tempio si ergeva sul vertice del monte Tripaldo (castiello) e Ippolisto non mancò di intervenire per rimproverare quella moltitudine della loro cecità. Moltissimi lo seguirono fuori dal tempio il quale di lì a poco crollò uccidendo diversi pagani. Questo evento diede luogo alla conversione di moltissime persone, inasprendo ancor di più l’odio dei senatori pagani. Per un po’ di tempo Ippolisto, esortato dai fedeli, si rifugiò nel Sannio Irpino e precisamente a Dentecane e Benevento, dove probabilmente conobbe anche S. Gennaro ed il suo compatriota S. Modestino. Nel 303 torna ad Abellinum, proprio in occasione della grande festa di Giove che si svolgeva il primo di maggio. L’ardente apostolo non riuscì a trattenere la sua ira e con parole infuocate, nonostante il grave pericolo incombente, predicò il suo Dio morto crocifisso. L’inaspettato tuonare del nostro glorioso martire ferì altamente i sacerdoti e i senatori i quali ordinarono di trascinarlo ai piedi di Giove per costringerlo ad adorarlo. Il pontefice Beatillo gli porse l’incensiere per onorare Giove, ma il martire in segno di spregio lo scaraventò sull’idolo frantumandolo. Per questo gesto fu coperto di sputi e condannato a morte. Prima di dare atto alla sentenza fu tentata l’ultima risorsa (comune nei processi contro i cristiani), cioè la tortura col famoso “Flagellum” per spingere il nostro eroe all’apostasia; ma il Santo non vacillò un istante sotto la crudele flagellazione, per cui i senatori, dirati, per far scempio più feroce, ordinarono che fosse legato alla coda del toro che doveva essere sacrificato e che il suo corpo restasse preda degli avvoltoi e dei cani. Il toro aizzato con torce infiammate, corse imbizzarrito, giù per il crinale del colle, trascinando e dilaniando lungo il pendio sassoso e cosparso di rovi spinosi, quel povero corpo disarticolato e sanguinolento, ormai privo di vita, ed infine sulle rive del fiume Sabato i carnefici gli mozzarono la testa, lasciandone il martoriato corpo insepolto. Dopo due giorni, due nobili donne convertite, Massimilla e Lucrezia, poi martirizzate, notte tempo raccolsero in candidi lini i resti delle sue carni e le zolle bagnate del suo sangue e lo riposero in una grotta, ora chiamata Specus dei Martiri. Al suddetto martirio seguì quello non meno toccante del senatore Quinziano da tempo convertito da S. Ippolisto. Per il rifiuto posto alla condanna del martire fu condannato ad essere decapitato; i suoi figli Ireneo e Crescenzo di dieci e sette anni si aggrapparono al padre nella speranza di impietosire i carnefici, ma anche loro furono trafitti a colpi di lancia. Il corpo di S. Ippolisto a conferma del suo martirio, venne scoperto nel 1629 al di sotto del famoso mosaico (perduto per tale ricerca) tra i sepolcri di S. Sabino e di S. Romolo. Sotto si ritrovò finalmente il corpo del martire con il busto separato dalla testa a cui era legato ancora un mozzicone della fune intrisa di sangue, con la quale era stato legato al toro.
Cripta Chiesa S.S. Trinità di Venosa: S. Antonio Abate (IX-X sec)
Cartografia del Tratturo (da quadro di unione catastali)
Lastra tombale di San Guglielmo un tempo presso il monastero del Goleto e successivamente trafugata o dispersa (immagine tratta da V. De Duonni. Tra le immagini e il testo del “De vita et obitu sancti Guglielmi: raffigurazione del santo vercellese fondatore di Montevergine”. Unisa, 2017)
Schizzo di San Guglielmo fatto da G.B.Guarini presso la cappella rupestre di S.Margherita. Tatto dal testo “Curiosità d’arte medievale nel melfese” – anno 1900